“Un mondo che fosse tanto semplice da poter essere compreso sarebbe troppo semplice per contenere osservatori in grado di comprenderlo”. Vorrei aprire questa riflessione con una citazione di J.D. Barrow per introdurre a un concetto molto scivoloso, ovvero la nostra vulnerabilità all’interno dei social network.

Anche gli ambienti virtuali rispondono alle conseguenze dei nostri processi di continuo accomodamento e adattamento alla realtà. Quali connotazioni relazionali hanno però questi grandi contenitori sociali intangibili? Quanto, anche con fiduciosa approssimazione, è verosimile leggere – nelle opportunità che gli strumenti tecnologici mettono a disposizione – genuine possibilità di crescita? E quanto questi ambienti relazionali virtuali possono produrre o amplificare parallele frustrazioni, alienazioni e angosce nel quotidiano?

Questo articolo è più intriso di domande che di considerazioni. Il motivo sta soprattutto nel fatto che sono costanti e doverosi i quesiti che dobbiamo porci di fronte all’utilizzo di queste piattaforme sociali, sia per non incorrere nel rischio di demonizzazioni sterili e semplicistiche sia per non scivolare nel rischio opposto di non valutare correttamente i potenziali pericoli che nascondono. L’equilibrio in tal senso è chirurgico, anche perché sappiamo che lontano da ogni equilibrio esiste un potenziale in grado di creare nuove forme di funzionamento. E allora, forse, la domanda da porsi può essere proprio: a quali nuovi funzionamenti stiamo andando incontro? Qui credo si giochino le derive che vanno dai forti toni narcisistici della “piazza aperta a tutti e in cui tutti possono parlare di tutto”, alle tinte ottimistiche nello scorgere le opportunità della “condivisione aperta a tutti a cui tutti possono accedere e partecipare”.

L’uomo sta avviando (forse ha già avviato) un gioco competitivo con la macchina virtuale, rischiando di fondersi con la macchina stessa. L’evoluzione dei social mostra una tendenza a implementare piattaforme caratterizzate dalla costante ricerca di interazione. Ma come passare dall’interazione alla relazione? Ad esempio, in situazioni emergenziali come quella epocale che stiamo vivendo oggi in merito al coronavirus, la tecnologia cerca di fondere lo scarto tra il bisogno di vicinanza e la distanza fisica. Tale Caronte virtuale sembra al momento generosa alternativa alle interazioni impossibilitate a essere giocate dal vivo. Ma il paradosso della relazione in termini di espansione dei confini della nostra presenza fisica, dei nostri stessi corpi concreti, porrà comunque sempre più in luce i rischi della virtualità. Dobbiamo forse accettare il fatto che il continuo, cangiante ed evolutivo potenziale tecnologico, non potendoci garantire invulnerabilità, sfiderà sempre più la responsabilità di scegliere quali vulnerabilità accettare, per noi, per i nostri figli, per le nostre comunità? Magari è proprio in questo momento in cui ci sentiamo tutti “fisicamente” così vulnerabili, che possiamo porci queste difficili domande.